fbpx

“I giorni dello Stupore”: Nascere di nuovo

Luca Mauceri legge Tolentino Mendonca

7 - “I giorni dello stupore”: “Nascere di nuovo”, Luca Mauceri legge Tolentino Mendonca

I giorni di Natale sono giorni che ci invitano al rinnovamento, a inaugurare una rinascita personale e corale. Il cardinale Tolentino Mendonca dà voce, in questo scritto, a questa ansia di cambiamento e ci invita a accogliere questa spinta perché, scrive, “la vita è piena di nascite”.

Con questo testo, tratto dal libro “Pregare ad occhi aperti” (Edizioni Romena, 2021) si conclude il nostro cammino ne “I giorni dello stupore”. Per tutta la settimana di Natale abbiamo accompagnato l’arrivo di Gesù proponendo una selezione, curata da Massimo Orlandi, di pagine sul Natale di scrittori, teologi, poeti. Speriamo che questo percorso di letture vi sia stato di aiuto nel vostro cammino natalizio.

7.Nascere di nuovo

Sbaglia chi pensa che nasciamo una volta sola. Per chi vuole vivere, la vita è piena di nascite.
Nasciamo molte volte durante l’infanzia, quando gli occhi si aprono in gioia e meraviglia. Nasciamo nei viaggi senza mappa nei quali la giovinezza si arrischia.
Nasciamo nella seminagione della vita adulta, maturando, tra inverni e primavere, la misteriosa trasformazione che mette sullo stelo il fiore e dentro il fiore il profumo del frutto.
Nasciamo molte volte in quell’età avanzata in cui le attività non cessano, ma si riconciliano con i vincoli interiori e i cammini che erano stati posticipati.
Nasciamo quando ci scopriamo amati e capaci di amare.
Nasciamo nell’entusiasmo del riso e nella notte di certe lacrime.
Nasciamo nell’orazione e nel dono.
Nasciamo nel perdono e nel conflitto.
Nasciamo nel silenzio o illuminati da una parola.
Nasciamo nel portare a termine un impegno, e nella condivisione.
Nasciamo nei gesti o al di là dei gesti.
Nasciamo dentro di noi e nel cuore di Dio.

Per questo ti chiedo, Gesù, di insegnarmi a nascere: quando le speranze si rompono come cose logore; quando mi mancano le forze per lo scalino successivo, e io esito;
quando della semina mi par di raccogliere solo il vuoto;
quando l’insoddisfazione corrode anche lo spazio della gioia;
quando le mani hanno disimparato la trasparente danza del dono.
Quando non so abbandonarmi in te.

José Tolentino Mendonca

6.Auguri scomodi (testo integrale)

Carissimi, non obbedirei al mio dovere di vescovo se vi dicessi: “Buon Natale” senza darvi disturbo. Io, invece, vi voglio infastidire. Non sopporto infatti l’idea di dover rivolgere auguri innocui, formali, imposti dalla routine di calendario. Mi lusinga addirittura l’idea che qualcuno li respinga al mittente come indesiderati.

Gesù che nasce per amore vi dia la nausea di una vita egoista, assurda, senza spinte verticali e vi conceda di inventarvi una vita carica di donazione, di preghiera, di silenzio, di coraggio.

Il Bambino che dorme sulla paglia vi tolga il sonno e faccia sentire il guanciale del vostro letto duro come un macigno, finché non avrete dato ospitalità a uno sfrattato, a un marocchino, a un povero di passaggio.

Dio che diventa uomo vi faccia sentire dei vermi ogni volta che la vostra carriera diventa idolo della vostra vita, il sorpasso, il progetto dei vostri giorni, la schiena del prossimo, strumento delle vostre scalate.

Maria, che trova solo nello sterco degli animali la culla dove deporre con tenerezza il frutto del suo grembo, vi costringa con i suoi occhi feriti a sospendere lo struggimento di tutte le nenie natalizie, finché la vostra coscienza ipocrita accetterà che il bidone della spazzatura, l’inceneritore di una clinica diventino tomba senza croce di una vita soppressa.

Giuseppe, che nell’affronto di mille porte chiuse è il simbolo di tutte le delusioni paterne, disturbi le sbornie dei vostri cenoni, rimproveri i tepori delle vostre tombolate, provochi corti circuiti allo spreco delle vostre luminarie, fino a quando non vi lascerete mettere in crisi dalla sofferenza di tanti genitori che versano lacrime segrete per i loro figli senza fortuna, senza salute, senza lavoro.

Gli angeli che annunciano la pace portino ancora guerra alla vostra sonnolenta tranquillità incapace di vedere che poco più lontano di una spanna, con l’aggravante del vostro complice silenzio, si consumano ingiustizie, si sfratta la gente, si fabbricano armi, si militarizza la terra degli umili, si condannano popoli allo sterminio della fame.

I poveri che accorrono alla grotta, mentre i potenti tramano nell’oscurità e la città dorme nell’indifferenza, vi facciano capire che, se anche voi volete vedere “una gran luce” dovete partire dagli ultimi. Che le elemosine di chi gioca sulla pelle della gente sono tranquillanti inutili.
Che le pellicce comprate con le tredicesime di stipendi multipli fanno bella figura, ma non scaldano.
Che i ritardi dell’edilizia popolare sono atti di sacrilegio, se provocati da speculazioni corporative.

I pastori che vegliano nella notte, “facendo la guardia al gregge”, e scrutano l’aurora, vi diano il senso della storia, l’ebbrezza delle attese, il gaudio dell’abbandono in Dio. E vi ispirino il desiderio profondo di vivere poveri che è poi l’unico modo per morire ricchi.
Buon Natale! Sul nostro vecchio mondo che muore, nasca la speranza.

don Tonino Bello

5.È Dio e mi assomiglia! (testo integrale)

Siccome oggi è Natale, avete il diritto di esigere che vi si mostri il presepe. Eccolo…
La Vergine è pallida e guarda il bambino. Ciò che bisognerebbe dipingere sul suo viso è uno stupore ansioso che non è apparso che una volta su un viso umano.
Poiché il Cristo è il suo bambino, la carne della sua carne, e il frutto del suo ventre. L’ha portato nove mesi e gli darà il seno e il suo latte diventerà il sangue di Dio. E in certi momenti la tentazione è così forte che dimentica che è Dio. Lo stringe tra le sue braccia e dice: piccolo mio!

Ma in altri momenti rimane interdetta e pensa: Dio è là e si sente presa da un orrore religioso per questo Dio muto, per questo bambino terrificante. Poiché tutte le madri sono così attratte a momenti davanti a questo frammento ribelle della loro carne che è il loro bambino e si sentono in esilio davanti a questa nuova vita che è stata fatta con la loro vita e che popolano di pensieri estranei.
Ma nessun bambino è stato più crudelmente e più rapidamente strappato a sua madre poiché egli è Dio ed è oltre tutto ciò che lei può immaginare. Ed è una dura prova per una madre aver vergogna di sé e della dura condizione umana davanti a suo figlio.

Ma penso che ci siano anche altri momenti, rapidi e difficili, in cui sente nello stesso tempo che il Cristo è suo figlio, il suo piccolo, e che è Dio. Lo guarda e pensa: “Questo Dio è mio figlio. Questa carne divina è la mia carne. È fatta di me, ha i miei occhi e questa forma della sua bocca è la forma della mia. Mi rassomiglia. È Dio e mi assomiglia”.

E nessuna donna ha avuto dalla sorte il suo Dio per lei sola. Un Dio piccolo che si può prendere nelle braccia e coprire di baci, un Dio caldo che sorride e respira, un Dio che si può toccare e che vive. Ed è in quei momenti che dipingerei Maria, se fossi pittore, e cercherei di rendere l’espres- sione di tenera audacia e timidezza con cui protende il dito per toccare la dolce piccola pelle di questo bambino-Dio di cui sente sulle ginocchia il peso tiepido e che le sorride.

E Giuseppe? Giuseppe non lo dipingerei. Non mostrerei che un’ombra in fondo al pagliaio e due occhi brillanti. Poiché non so cosa dire di Giuseppe e Giuseppe non sa cosa dire di se stesso. Adora ed è felice di adorare e si sente un po’ in esilio. Credo che soffra senza confessarselo. Soffre perché vede quanto la donna che ama assomigli a Dio, quanto già sia vicino a Dio. Poiché Dio è scoppiato come una bomba nell’intimità di questa famiglia. Giuseppe e Maria sono separati per sempre da questo incendio di luce. E tutta la vita di Giuseppe, immagino, sarà per imparare ad accettare.

Miei buoni signori, questa è la Sacra Famiglia.

Jean Paul Sartre

4.Sono Gesù, tuo figlio (testo)

“Ce la farò, qui starò benissimo. Hai trovato un posto adatto, caldo e tranquillo. Ce la farò Iosef, sono donna per questo. All’alba ti metterò sulle ginocchia Ieshu.”
I dolori erano cominciati. Iosef sistemò della paglia sulle pietre asciutte, ci stese sopra una coperta e le pelli. Gli chiesi il coltello e un bacile d’acqua. Mi sdraiai. Batteva più violento il cuore, i colpi bussavano alle tempie, da chiudere gli occhi. Nessuno intorno, la piccola stalla era fuori nei campi. Una luce calava da un’apertura del tetto di canne e di rami. Era lei, la cometa, appesa in cielo come una lanterna.
Prima di separarci gli ho messo in ordine i capelli, ci siamo sorrisi. “Così mi piaci”, gli ho detto, soddisfatta di com’erano sistemati.

Iosef era uscito lasciando il coltello e il bacile. Ora toccava a me, ora dovevo fare, parto­rire è fare con il corpo.(…)

Sudavo. Appoggiata di schiena mi tenevo il pancione con due mani per aiutare le mosse del bambino. L’incoraggiavo a bassa voce, col respiro corto. Lo chiamavo. Le bestie alle spalle mi davano forza. Le gambe mi facevano male per la posizione. Mi inginocchiai per farle riposare. “Affacciati bimbo mio, vienimi incontro, mamma tua è pronta a prenderti al volo appena spunta la tua testolina.” I muscoli del ventre andavano dietro al respiro, una contrazione e un rilassamento, spinta, rincorsa, spinta.
Quando lo strappo era più forte mi mordevo il labbro per non far scappare il grido. Iosef era di sicuro davanti alla porta, di guardia.

Lontano i pastori chiamavano qualche pecora persa. “E’ una bella notte per venire fuori, agnellino mio, notte limpida in alto e asciutta in terra. Il viaggio è finito e tu hai aspettato questo arrivo per nascere. Sei un bravo bambino, sai aspettare. Ora nasci, che tuo padre ti aspetta. Si chiama Iosef, quando entra gli diciamo: caro Iosef io sono Ieshu tuo figlio. Vedrai che sorpresa, che faccia farà.”

Parlavo e soffiavo, a un colpo più forte, una spallata di Ieshu, mi alzai di nuovo in piedi appoggiandomi alla mangiatoia. Le bestie ruminavano tranquille, c’era pace. Iosef aveva scelto un buon posto per noi. “Bel colpo Ieshu, un altro così e sei fuori, ecco ti aiuto, spingiamo insieme, le mani sono pronte a raccoglierti, via?”
Via, è uscita la spalla, l’ho toccata, poi è rientrata, ma subito dopo di slancio Ieshu ha messo fuori la testa, l’ho avuta tra le mani, mi sono commossa, mi è scappato un singhiozzo e sul singhiozzo è venuto fuori tutto e l’ho afferrato al volo. L’ho alzato per i piedi per liberare i polmoni e fare spazio al primo vento che forza l’ingresso chiuso del respiro. Ieshu ha inghiottito aria senza piangere.

Faccio mosse esperte senza conoscerle. Il mio corpo fa da solo, esegue. Non l’ho istruito io. Odoro la creatura perfetta che mi è nata, posso allentare il nervo attorcigliato del sospetto: è maschio, è la certezza, non più una profezia. È maschio, primogenito in terra di Iosef e Miriàm, carne da circoncidere, oggi a otto. È maschio, l’ho fatto io, sgusciato sano in mezzo all’acqua e al sangue, il corpo esulta insieme a quello di ogni donna che mette al mondo l’altro sesso, perché è un regalo a noi.

Ho tagliato il cordone, un solo taglio, ho fatto il nodo del sarto e ho strofinato il suo corpo in acqua e sale. Eccolo finalmente. L’ho palpato da tutte le parti fino ai piedi. L’ho annusato e per conferma gli ho dato una leccatina. “Sei proprio un dattero, sei più frutto che figlio.” Ho messo l’orecchio sul suo cuore, batteva svelto, colpi di chi ha corso a perdifiato. Al poco lume della stella l’ho guardato, impastato di sangue mio e di perfezione. “Somigli a Iosef.” Così ho voluto vederlo. “Tuo padre in terra è un uomo coraggioso, tu gli assomiglierai.” Mi sono stesa sotto la coperta di pelle e l’ho attaccato al seno.

Il bue ha muggito piano, l’asina ha sbatacchiato forte le orecchie. E stato un applauso di bestie il primo benvenuto al mondo di Ieshu, figlio mio.

Erri De Luca

3.La notte in cui nasce Dio (testo)

La nascita del Verbo di Dio non poteva avvenire se non nel profondo silenzio della notte, mentre tutto tace, tutto è avvolto dall’oscurità. Anche in noi il Verbo divino discende quando riusciamo a fare un silenzio totale in noi, a spengere tutte le luci che vengono dalla terra. Dobbiamo spegnere tutto: le luci che sono nella nostra mente, le voci che nascono nella nostra zona emotiva e le voci che tengono svegli e all’erta i nostri sensi esterni.
Se vogliamo che il Verbo di Dio nasca in noi dobbiamo saper scendere in questo silenzio profondo, in questa oscurità totale.

Il nostro essere naturale ci spinge all’agitazione e al rumore, all’accrescimento di pensieri, alla moltiplicazione di stati emotivi, e crediamo di essere vivi mentre siamo in una condizione di pura apparenza. Molte volte la ricerca di eccessive attività, anche in nome di Dio, è l’indizio di un disordine interiore. Quando la gente vi chiede: cosa fate, nella solitudine? Vi fa questa domanda perché è abituata a evadere nell’azione. Quando lo chiedono a me: alle Stinche, lei cosa fa, qui isolato? Rispondo: non fo niente. Cerco di vivere in spazi di silenzio, di equilibrio, di grande pace emotiva, di solitudine totale, spazi che mi debbono avvolgere e permettere alla mia anima di pensare i pensieri di Dio, al mio sentimento di muoversi secondo il sentire di Dio, ai miei sensi di ascoltare le voci che sono al di là della sensibilità, al di là di tutti i rumori possibili umani. Il silenzio è quell’atmosfera che ci rende uomini e donne vere, perché in noi nasce la Parola di Dio.

Il Figlio di Dio nasce in una grotta, in un rifugio naturale, dove vanno gli animali per ripararsi dalle intemperie. Perché questo? La grotta è la profondità della terra, è la profondità della coscienza dell’uomo, dove il Verbo di Dio discende.
Il fatto che Cristo, la Parola di Dio, nasca nel profondo della grotta ci deve dare una grande speranza. Nella nostra grotta, nel nostro pozzo, non ci sono soltanto dei serpenti, delle tendenze spaventose che, quando si manifestano, ci riempiono di terrore; in noi c’è il Figlio di Dio, con la sua tenue luce che vuole illuminarci, che risplende sulle nostre tenebre.
Dobbiamo sentire la grotta non soltanto come spazio geografico, ma come spazio psicologico: in noi nasce il Figlio di Dio. Angelo Silesius dice: «Inutilmente Cristo nasce in Betlemme se non nasce in te». Siamo noi che dobbiamo diventare coscienti che nella nostra grotta c’è il bambino divino che vuole crescere, illuminarci, trasformarci, e deve nascere in noi. E in noi nasce quando riusciamo a fare silenzio, ad avvolgerci di tenebra.

E come si rivela il Figlio di Dio nel momento della sua nascita? A Betlemme il Cristo rivela la sua onnipotenza nell’impotenza totale di un bambino che è bisognoso di tutto: di una culla, di braccia che lo accolgano, di mammelle che gli diano il latte, del calore, della protezione, della vigilanza più assoluta. Dio è l’inerme.
Così si rivela a noi: è il fanciullo che nasce. Dobbiamo riuscire a togliere dalla nostra mente tutte le visioni e le figure con le quali spesso raffiguriamo il mistero divino: il re di tremenda maestà, il re onnipotente, padrone della vita e della morte. Quando si è rivelato, si è rivelato come impotente, perché la potenza di Dio è il rovescio di tutte le potenze degli uomini. È la potenza dell’amore, è la potenza del pane, è la potenza del fanciullo.

Questo dobbiamo pensare, credo, per poter vivere anche noi il mistero della nascita di Cristo.
In quella notte cercate di immergervi nella tenebra più fitta, ove risplende la luce divina, nel silenzio più assoluto, dove risuona la parola eterna che prende carne. In quella notte santa cerchiamo di essere anche noi il fanciullo eterno che nasce continuamente nelle tenebre, nel silenzio, nella lontananza da tutte le organizzazioni umane, nella semplicità, nella povertà più assoluta.
Io spero che Cristo, il Verbo di Dio, nasca veramente nella mia coscienza come nella vostra coscienza, in questo Natale.

Giovanni Vannucci

*estratto dal libro “Il passo di Dio”, (Paoline, 2005).

2.Lettera di Natale (testo)

Natale e i giorni che lo circondano sono una spina feroce per i dolenti. Il Natale dei vecchi nelle case di cure, il Natale dei carcerati, il Natale negli ospedali. Ma questi giorni sono feroci anche per chi sta a casa e ha la stanza del figlio vuota, il figlio morto a Natale diventa un ferro rovente che ti rovista il cuore. Il Natale di chi sta a casa e sente che è passato troppo tempo e non hai più venti anni e nemmeno quaranta.

Il Natale dei bambini circondati da merci più che da da persone, il Natale degli scapoli, quelli che quando tornano a casa la sera sentono il vento che fischia dietro la porta e non ti viene voglia di spostare un bicchiere, di lavare un piatto. Il Natale degli amori sgretolati, delle diffidenze, delle bugie che diciamo agli altri e a noi stessi.

Il miserabile Natale di chi ha successo e ne vuole avere ancora di più, il Natale dei delinquenti che prima o poi saranno scoperti, il Natale di chi è stato lasciato e di chi non è stato mai trovato, il Natale del fegato malato, del dente guasto, il Natale degli occhi gonfi, il Natale delle rughe, dei capelli caduti, il Natale di chi non si ama più e di chi non ha amato mai.

Una festa così dovrebbe essere una grande occasione di federare le nostre ferite, dovrebbe essere la festa della verità su chi siamo e su chi vorremmo diventare, da soli e assieme agli altri. E invece abbiamo delegato il nostro dolore ai dolciumi, come se un torrone potesse essere l’avvocato della nostra ansia, un panettone il muro contro l’angoscia.
Natale dovrebbe essere il tempo della poesia. La poesia al posto della tombola, la terna di Leopardi, la quintina di Dante. La poesia serve a spiegare la disperazione e a far fiorire la gioia, tutte e due le cose assieme. La poesia serve a lasciare un poco di vuoto dentro di noi, serve a tenere spazio per il ritorno dei miracoli.

Nella giostra orrenda delle merci ci siamo dimenticati che in fondo Natale è la festa dei miracoli, come se ci fosse un giorno in cui possiamo festeggiare i miracoli che avvengono tutto l’anno.

Franco Arminio*

*intervento pubblicato sul profilo Facebook di Franco Arminio il 22 dicembre 2019

1.La Madonna del latte (testo)

Arrivo ogni anno a Natale con il fiato corto. Ma anche, e forse ancor più, con il fiato sospeso.
Il fiato corto è fiato di fatica. Fatica a reggere. Il fiato sospeso è fiato di contemplazione. Di occhi sgranati. Il fiato lo sospendi o lo trattieni perché neppure il più esile fruscio possa violare l’incantamento.
Penso al fiato sospeso nella grotta della nascita. Penso al fiato sospeso di Maria, fiato delle mani che toccano e non toccano il bambino. Era suo o non era suo? Baciava, ma solo sfiorando. Penso al fiato sospeso di Giuseppe… Quel bambino era da proteggere, quella moglie, ragazza madre, era da custodire. E teneva il fiato. Capiva e non capiva.
Fiato sospeso, fiato caldo di una grotta che ogni anno veniamo a visitare. Ma perché dura questo nostro fiato ancora oggi sospeso, ancora oggi caldo? Perché dopo il migrare di generazioni e generazioni nella storia?
Perché Dio ha visitato la nostra terra, ha cancellato la distanza. Facendosi carne: “il Verbo si è fatto carne”.
E si gridò allo scandalo e non poteva non succedere. Scandalo e buona notizia, evangelo.
Ma se non patisci lo scandalo, se l’evento non ti lascia con il fiato sospeso, non è vero Natale. Sarai come tanti cristiani che, a protezione di scandalo, pensano che Gesù fosse un po’ uomo e un po’ no, che toccasse la terra e non la toccasse. E invece no. La toccava, era fatto di terra. Come noi. E il bambino si attaccava al seno, come i nostri bambini. Un Dio che ha bisogno di latte.

Ti dirò che per me Natale fu anche un pomeriggio di fine novembre quando entrai in una casa di piazza Bernini, una delle tante case ospitali di questo avvento. Notai un attimo di esitazione sul volto della mamma. “Nicoletta” mi disse “sta allattando il bambino”, ma subito la vidi affacciarsi nella sala con il suo bimbo che le succhiava il seno. Gli occhi erano bellissimi e felici. Come gli occhi di una Madonna.
La mente mi corse quella mattina alle raffigurazioni della Madonna del latte. “Una Madonna da nascondere” così il titolo di un libro di uno scrittore lecchese, Natale Perego, che parla di questa iconografia della Madonna che ebbe la sua massima fioritura a cavallo tra il quattrocento e il cinquecento, registrando poi una progressiva costante emarginazione
quasi fosse un soggetto religioso sconveniente, imbarazzante, da accantonare.

Si preferì dare a Maria gesti e movenze che forse mai le appartennero e velare invece un gesto che di certo fu suo. Ma ritenuto troppo umano, troppo terrestre, quasi un eccesso di incarnazione.
Il bambino che succhiava il seno di Nicoletta mi riportò al cuore la Madonna del latte, ora in esilio nell’iconografia religiosa. Ma non solo. In esilio, mi sembra di capire, anche nella spiritualità, legata per lo più alle mani giunte e molto meno, quasi mai, a un seno che allatta. Quasi un processo di disincarnazione, di disumanizzazione. Di Dio e della spiritualità. E di conseguenza un attentato alla buona notizia. Di un Dio che tocca la terra ed è nutrito dalla terra.

Più volte, andando per case in questa lunga vigilia di Natale, entrando, osservando, ascoltando, mi è passato e ripassato nel cuore il sospetto che al Dio dell’incarnazione, al Dio che prende casa, si stia rispondendo con una religione fuori dalle case, fuori da ciò che accade nella casa e nel cuore. Con documenti e interventi nati nei palazzi freddi e lontani e non nell’inquieta vita delle donne e degli uomini del nostro tempo, fuori da una vera appassionata frequentazione della loro vita.
E si ripropone la distanza. Proprio là dove buona notizia era che la distanza era stata cancellata. Forse è per questo che mi sembra di cogliere sempre più nell’aria che respiriamo un invito urgente e forte: ritornate a fare come faceva lui, Gesù, lui non era l’uomo delle piazze, le piazze odorano di esibizione. Era l’uomo delle strade, dove ci si fa compagni di viaggio, compagni delle domande della vita, scrutatore di volti, delle tristezze e delle gioie dei volti. Lui uomo delle case: “Oggi voglio fermarmi in casa tua”. E a tavola lo trovi con i pubblicani e i peccatori. Entrando nelle case, osservando ascoltando, avverto e misuro con sgomento tutta la distanza che per colpa nostra si è ricreata tra il Verbo e la carne dell’umanità.

Penso sia venuta l’ora, e sia questa, in cui si debba riprendere con serietà e coraggio la via che il Verbo facendosi carne ci ha lasciato. Meno esternazioni e più condivisione delle speranze e delle gioie, dei drammi e delle sofferenze delle donne e degli uomini del nostro tempo.
La Madonna del latte.

Angelo Casati*

* tratto da “Fiato sospeso fiato caldo”, in Sussulti di speranza, edizioni Ancora, 2009